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25/11/2008

Generazione dei 44 gatti

zeccoro.jpg Oggi ho visto che in tv c’era “Lo zecchino d’oro”: trasmissione storica e sbaglio di poco a dire la più longeva, forse seconda solo al “Festival di Sanremo”, non stupiamoci quindi se all’estero ci definiscono il popolo delle “canzonette”! Iniziamo da piccoli. Non fraintendete però, la mia non è una critica, voglio solo fare un’analisi del cambiamento dei tempi.
Certo non è corretta la mia definizione, perché non è esistita una fase culturale, un’epoca o un periodo a cui poter far riferimento, però io faccio parte di quella che può essere definita la “generazione dei 44 gatti”.


Per molti non ha alcun significato, ma coloro che hanno un’età sopra gli “anta” ricordano bene che “Quarantaquattro gatti” era il titolo di una canzone che nella seconda metà degli anni 60 divenne una di quelle che rappresentano ancora “Lo zecchino d’oro”.
Perché legare una generazione ad una canzone: ma perché coloro che sono cresciuti con la colonna sonora di quella canzone hanno vissuto un’infanzia ormai scomparsa, che lo stesso “Zecchino” di oggi, ci mostra diversa, adeguandosi naturalmente all’evoluzione dei tempi.
Eravamo bambini nella fantasia, nelle cose semplici che riuscivano a stupirci, sbalorditi di fronte ad un pupazzo parlante, Topogigio che “cresceva” assieme a noi, non per niente siamo della stessa leva (anche questa un’affermazione che oggi non è più usata mancando la leva militare obbligatoria), nati cioè nello stesso anno; ai “brillantini” che luccicavano sul costume di Mago Zurlì; divertiti dalle marachelle di Richetto, un comico vestito da scolaro con tanto di grembiule e grande fiocco (anche se quest’ultimi a scuola sembrano ritornare di moda). Stavamo così, imbambolati davanti a fatui effetti speciali, che nulla in realtà avevano di speciale, ma che ci proiettavano in un mondo che poi giornalmente andavamo a crearci con l’immaginazione, canticchiando simpaticamente quelle semplici canzoncine, semplici e surreali come i loro titoli. Oggi è tutto cambiato, naturalmente, nel suo divenire il mondo ha cambiato, e comunque ha fatto si, che anche lo “Zecchino” per forza di cose si adeguasse.
Siamo nell’era dei cellulari e così per votare le canzoni si ricorrere al televoto, le mitiche palette servono soltanto a generare un pizzico di nostalgia ai genitori a cui sbadatamente cade l’occhio sul programma che stanno guardando i figli. La generazione dei “44 gatti” per ricevere o fare una telefonata si doveva recare al posto pubblico (in genere il bar principale del paese) e prendere la linea attraverso un centralino dal quale rispondeva una signorina, che allora, non ci diceva neanche il suo nome. I piccoli cantanti sono oggi internazionali: gli estremi di un tempo, Sicilia e Trentino, caratterizzati dalla fonia dialettale, sono stati sostituiti da Australia e Perù, e le canzoni si farciscono di idiomi e vocaboli dei quattro angoli della terra. Schermi giganti, luci, proiezioni, tecnologie offrono quanto di più allettante agli occhi si può mostrare, al posto di quel mondo bicolore (l’allora tv in bianco e nero) nel quale andavamo a cercare una sfumatura di grigio o fumé “marronastro” per rendercelo più vivo. E le canzoni, già proprio loro, le protagoniste della trasmissione, dovevano essere semplici ed orecchiabili, perché dovevamo cantarcele da soli, o, grazie ai più fortunati, ascoltarle da un disco in vinile nero, che dopo pochi giorni aveva più graffi dei 45 cerchi su cui era inciso. Oggi, ancora la tecnologia, ci ha privato di tenere in allenamento la memoria: l’unico sforzo mnemonico che dobbiamo fare è quello di ricordarci le varie password degli strumenti che adoperiamo (e se ne usiamo una sempre uguale la parte della mente che usiamo è praticamente infinitesimale). Poco importa se poi dobbiamo comprare “training” elettronici per allenare la mente e la memoria! Già la generazione dei “44 gatti” non aveva l’elettronica, viveva allo sbaraglio, per strada, riportando escoriazioni sulle ginocchia, vestita di pantaloncini corti anche d’inverno con la neve, senza la comodità di una sedia all’interno di casa di fronte ad un monitor. Però è sopravvissuta. Per andare a scuola si portava la cartella (il sussidiario, il libro di lettura, un quaderno a righe ed uno a quadretti, il diario e l’astuccio) e si sopportava il peso della cultura in senso metafisico, senza bisogno del trolley dotato di ruote e manico estensibile per trasportarne anche il peso materiale: già a quel tempo (e non si tratta di c’era una volta) si andava a piedi con la cartella, senza la necessità del SUV per trasportare quanto necessario allo studio (anche perché il SUV non esisteva), eppure le ore scuola erano le stesse! Ma torniamo allo “Zecchino” e allo scomparso abito (certamente oggi ridicolo) del Mago Zurlì, anzi alla scomparsa dello stesso Mago, oggi sostituito da un canuto e ben vestito conduttore, che non è altro che la stessa persona diversamente vestita. Con piacere però ho notato due cose, gli sguardi ancora stupiti dei bambini presenti e l’opera missionaria che compie l’Antoniano, utilizzando per delle giuste cause quegli stessi “moderni” strumenti che l’hanno cambiato.
Certo, avrei rivisto con piacere il coetaneo Topogigio ripetere, con la sua smorfia di imbarazzo, la frase “ma cosa mi dici mai!”, ma queste sono cose d’altri tempi, da generazione dei “44 gatti”.
Non fraintendete, la mia non è nostalgia, ne vuol essere un elogio al tempo che fu, è soltanto una riflessione, fatta da chi, appartenendo alla generazione dei “44 gatti”, ha visto la luce (delle lampadine fluorescenti e non a basso consumo) nel letto della casa paterna, con la luna che si poteva ammirare solo da lontano e per salutare qualcuno era necessario incontrarlo o scrivergli due righe con la penna inzuppata nel calamaio, spedite per “posta aerea”.

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