25/02/2016
L’eretico (C.A. Martigli)
E’ il periodo del rinascimento italiano e mentre grandi artisti italiani esprimono il meglio di loro stessi, le varie signorie cercano d’imporre le loro famiglie a duratura reggenza dei vari Stati, compreso quello Pontificio. In questo ambito dalla “seconda Roma”, la città di Istanbul, partono alcuni personaggi diretti alla Roma del papa Alessandro VI, dove con l’aiuto di alcuni italiani a loro legati per l’amicizia comune con Pico delle Mirandola, dovrebbero consegnare e divulgare il libro che contiene la vera storia e parola di Gesù di Nazareth. La presenza di Savonarola a Firenze, la ricerca dei Medici di riconquistare la loro gloria, gli intrighi dei Borgia nel cercare di trasformare il Vaticano in un loro regno familiare, diventano impedimenti tali che non permetteranno la nascita di un’unica religione universale. Questo molto in sintesi il romanzo di Martigli. La questione che però lo porta ad essere confrontato, anche dallo stesso autore, con il più noto “Il codice Da Vinci”, è la presenza nel testo del racconto della vita di Cristo, soprattutto quella dai 12 ai 30 anni, sconosciuta e mai rappresentata anche nei vangeli, canonici e non. L’autore, prendendo spunto da informazioni più o meno mitologiche, attraverso i racconti di una delle protagoniste, ci illustra l’”Ipsissima Verba” scritta o comunque narrata per propria voce da Gesù. E’ la storia di un uomo, non di un figlio di Dio, che predica amore, eguaglianza e libertà, e vive la sua vita con lo scopo di divulgare questa “novella” di fratellanza in modo che la dottrina ne sia al servizio e non viceversa. E’ un uomo che ha la sua famiglia, che vive i drammi di ognuno, che non compie miracoli, ma si avvale delle conoscenze della meditazione e dell’illusione per attirare a sé le genti. Non c’è nulla di scientifico in questa figura, ma se dai vangeli togliamo la “fede”, questo racconto potrebbe più degli altri avvicinarsi a quella che è stata la vera storia dell’uomo più conosciuto e sconosciuto di sempre. Naturalmente è un romanzo, così come “Il codice Da Vinci” e come tali vanno presi, senza andare a ricercare verità o “anti-dogmi” che nulla hanno a che vedere con la scienza e la religione.
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08/02/2016
Le canzoni dell’aglio (M. Yan)
Siamo alla fine degli anni ’80 del XX secolo e la Cina continua a vivere momenti di sbandamento che si protraggono da decenni dopo le varie rivoluzioni sociali che l’hanno caratterizzata (Mao, Xiaoping….). La “rivolta dell’aglio”, da cui prende spunto il romanzo di Yan, è uno dei tanti momenti di ribellione che porteranno alla più famosa rivolta di piazza Tienanmen e all’indimenticabile immagine del singolo studente di fronte ai carri amati. La popolazione è disillusa, le promesse di un futuro migliore per tutti e la parità sociale sono ormai sogni svaniti, la miseria dilaga e la corruzione dei funzionari e dei burocratici del partito che governa lo Stato non ha più limiti. In questo scenario le vicende dei personaggi si snodano con descrizioni spesso molto crude. Si accavallano episodi contemporanei alla storia e ricordi a volte narrati dai protagonisti in prima persona. La rassegnazione ai soprusi, alle tradizioni, alla miseria sembra l’unica strada per sopravvivere, anche se in maniera inumana: ribellarsi alla famiglia e allo Stato conduce alla morte, anche attraverso il sudicio, ultima ed estrema via di fuga. La narrazione ha la caratteristica lentezza orientale, benché l’autore riesce a descrivere buone immagini. Il finale rispecchia la cronaca giornaliera: i contestatori, sebbene nel giusto vengono puniti; gli amministratori-dirigenti, rei di badare ai loro soli interessi o quanto meno di superficialità, vengono premiati; la verità, è quella indiscutibile che decreta il potere a suo uso e consumo. Interessante è il monito dell’avvocato difensore nel processo, il cui esito è peraltro scontato, con il quale giustifica l’operato dei rivoltosi: << Se un partito, un governo non agisce per il bene del popolo, il popolo può rovesciarlo! Anzi deve rovesciarlo!>>. E’ uno slogan che ha un forte impatto sociale, ma che nella realtà non trova mai riscontro o quando viene messo in atto, serve soltanto a cambiare il soggetto che detiene il potere e non le condizioni di chi subisce il potere.
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